Lightbox Effect

22 aprile 2012

La battaglia di Sessano

A cura di Enio Monaco.

E’ opportuno raccontare per sommi capi quella “sanguinosa pugna”.
In quello scontro bellico Antonio era fermamente convinto della sua vittoria, soprattutto perché era a capo di un esercito di combattenti di tutto rispetto, molti erano veterani del padre GIACOMO, ed aveva con se anche le milizie del Conte GIOVANNI SFORZA valoroso e stimato Capitano.
Per tattica bellica, comunque, finse di aver paura per poter sfruttare luoghi di strategia più vantaggiosi e costringere  a spostarsi colà  re ALFONSO e a tale scopo, dopo aver dislocati alcuni soldati a Isernia ed altri a Carpinone, se ne rimaneva accampato con il grosso dell’esercito nella zona della “CASTAGNA” tra Pescolanciano e Sessano.
ALFONSO V che inizialmente si era  piazzato  su “Colle Dolce” che sorge vicino all’altro  denominato “COLLE alto” (circa 800 m, sul l.m.) e quindi un poco più elevato di Carpinone  (670 m.sul l.m.), tra i due colli passa la strada pedonale che porta a Sessano, consigliato dai suoi fedeli, ingannati dalla mossa tattica del Caldora, passò nella zona terminale nord della pianura di Sessano, accampandosi tra Carpinone e l’esercito caldoresco; questa decisione non veniva condivisa dal Principe di Taranto ed da altri capitani del regno oltre ai dirigenti militari siciliani e catalani che ritenevano oltremodo pericolosa la soluzione di chiudere il re in quella valle circondata da monti, conosciuti dalla raffinata furberia di ANTONIO. Ma il re preferì mettere le tende in quella zona seguendo il consiglio di stimati capitani bracceschi (della scuola di guerra di BRACCIO DA MONTONE ormai deceduto)
Da quella posizione poteva vedere l’esercito  nemico in direzione di Pescolanciano e si schierava con i suoi poco distante. Ci fu un gran subbuglio fra le truppe aragonesi in quanto ritenevano molto pericolosa la posizione assunta in quella cerchia di monti, e girava la voce che i Caldoreschi stavano per stringere un assedio intorno al re, tagliandogli ogni sorta di rifornimenti.
Un consiglio di guerra con tutti i capi fu riunito subito da ALFONSO; il Principe di Taranto suggeriva di rimanere in quel posto per al meno un giorno ma i più affezionati al re  consigliarono di trasferirlo subito ad Isernia o Venafro o in altro luogo sicuro per la propria incolumità e per premunirsi contro eventuali assalti del nemico che disponeva considerevoli forze e coraggio.
Mentre il re rifletteva sul da farsi, considerando oltraggioso e con riflessi negativi per lui la fuga davanti al pericolo, gli fu portato dinanzi un soldato fatto prigioniero, appartenente alle truppe di Caldora.
Venne a sapere da costui che il suo capo era un parente del Caldora, Paolo di Sangro, il  quale era tra i primi posti nell’esercito caldoresco e comandava 500  lance, fiore all’occhiello della cavalleria.
Pertanto il re  rimandò libero il prigioniero regalandogli cento alfonsini (moneta che all’epoca valeva cad. un ducato e mezzo) per far trasmettere un messaggio al suo comandante: gli prometteva alcune terre e privilegi  se passava nell’esercito aragonese.
Paolo di Sangro sembra che fu così ben convinto da quel l’ambasciatore (o per cupidigia o dalla sua pessima natura) che la notte stessa si recava a concludere l’accordo con il re (comunque accettava il tradimento)
Il  Caldora divideva il suo esercito in tre parti: una sotto il suo diretto comando, la seconda l’affidava al GIOVANNI SFORZA e l’altra parte a LIONELLO ACCIO CIAMURO.
Affidava inoltre un corpo di 500 lancieri a PAOLO di SANGRO con altrettanti soldati a cavallo con l’accordo che doveva operare fuori dallo schieramento e pronto ad accorrere  colà dove ve ne fosse  bisogno.
I due eserciti erano in effetti schierati sulle rive opposte del fiume Carpino.
CALDORA non iniziò subito le ostilità, sia perché per abitudine presa dal valoroso padre era temporeggiatore, sia perché nel campo avversario si discuteva l’opportunità di far partecipare alla battaglia incerta e pericolosa ALFONSO D’ARAGONA.
Si decise di non far partecipare il re allo scontro perché si prevedeva una sconfitta e quindi non volevano si  riversassero su di lui responsabilità e  conseguenze.
Il re rimase sdegnato da tutto questo, non poteva pensare che la sua persona fosse stata nociva facendo notare che la presenza di un re a capo di un esercito in una battaglia, sarebbe servita da sprono e dato coraggio ai soldati; quindi indossò l’elmo ed ordinò l’assalto.
Antonio, non volendo abbandonare la sua posizione
Si scatenava una furibonda mischia e gli Aragonesi furono respinti.
Incitati dal successo i Caldoreschi inseguirono il nemico irrompendo nel centro dell’esercito avversario ma ALFONSO fece entrare in azione altre due schiere ordinando di colpire l’avversario di fianco.
Superando lo squadrone dei Bracceschi, CALDORA  penetrava nelle file nemiche fino allo squadrone dove era in azione il re insieme con i suoi più valenti uomini, ma questi ultimi opposero una gagliarda resistenza; allora ANTONIO dette ordini a Giovanni Sforza e a Lionello Acclociamuro di spostarsi a destra e a manca dello schieramento avversario per una manovra di accerchiamento.
A questo punto viene il momento del traditore PAOLO DI SANGRO che al grido “Aragona Aragona” entra con i suoi nello schieramento  avversario a fianco di re ALFONSO.
 E’ evidente che questo improvviso voltafaccia, con il forte apporto di altri pur valorosi combattenti, crea difficoltà al valoroso ANTONIO che comincia ad accusare cedimenti.
Intanto la battaglia divampa in ogni parte con  grande accanimento e inaudita violenza mentre il re, incoraggiato dall’improvviso successo  spingeva i suoi soldati, incitandoli  allo slancio del combattimento, mentre lui stesso dava grande esempio di coraggio ed abnegazione esponendosi in prima linea nei posti più pericolosi.
Tutto questo influì non poco sul morale delle truppe.
Anche l’esercito caldoresco con in testa il valoroso ANTONIO combatteva con grande valore ma iniziava  a cedere a causa delle preponderanti forze nemiche e per la defezione di PAOLO DI SANGRO che sicuramente fu l’ago della bilancia.
 Infatti dopo due ore dal subentro del di Sangro cominciò la fuga dell’esercito caldoresco ravvedendo in questa l’unica possibilità di salvezza; nel successivo inseguimento molti furono catturati e tra questi lo stesso ANTONIO CALDORA; si sottrasse alla cattura GIOVANNI SFORZA il quale a tappe forzate durante un giorno ed una notte, con quindici cavalli, riusciva a raggiungere trovando rifugio nella Marca di Ancona; quasi tutti gli altri furono catturati o uccisi.
L’accampamento con i relativi padiglioni furono saccheggiati mentre ANTONIO sconfitto veniva condotto alla presenza del re che si dimostrò abbastanza magnanimo nei suoi confronti nonostante i suoi consiglieri,  memori della sua perfidia, chiedevano la pena capitale.
Lo storico ANGELO DE COSTANZO trattando questi avvenimenti su descritti ci da una più accurata dovizia di particolari sul dopo battaglia e ci racconta che Antonio CALDORA  appena fu alla presenza del re scese da cavallo si inginocchiò e baciò il suo piede; ALFONSO invece gli ordinò di risalire sul destriero e con tono buono gli disse:
“Conte, voi mi avete fatto travagliare molto oggi: andiamo in casa vostra e facciatime carezze (gentilezze) ch’io sono stanco”.
Il CALDORA turbato rispose: “Signore per vedere tanta benignità nella Maestà Vostra, mi pare di aver vinto, avendo perduto”.
I due con il loro seguito giunsero a Carpinone a tarda sera e si cenò al castello.
Dopo cena il re chiese al Caldora la possibilità di poter vedere le suppellettili del castello che, ovviamente nelle usanze del tempo, dovevano considerarsi come bottino per i vincitori.
Immediatamente, con gran stupore dei presenti, furono portati nella sala una cassa di cristallo contenente 24.000 ducati d’oro, una ricca serie di vasi che GIACOMO CALDORA aveva ricevuti in dono dai Veneziani, molti servizi di argenteria degni di un palazzo reale, un canestro di gioie  di gran valore, numerosi arazzi, tappezzerie, armi ed altre cose pregevoli.

Con grandissimo stupore e disappunto degli artefici della vittoria, che si aspettavano, come avveniva di solito, la ripartizione di quel meraviglioso bottino, il re rivolgendosi al Caldora disse: ”Conte, la virtù è tanto cosa bella che, a mio giudizio, deve lodarsi e onorarsi dai nemici, io non solo ti dono la libertà e tutte queste cose, fuorchè un vaso di cristallo che io voglio (oltre ad una preziosa statua d’oro di San Michele Arcangelo, presa  a suo tempo da Giacomo Caldora al Santuario del Gargano); ma ti dono ancora il tuo stato paterno e materno, e voglio che appresso di me abbi sempre onorato luogo, le molte terre che tuo padre avea acquistate in terra di Otranto, in terra di Bari, in Capitanata, e in Apruzzo, non posso donarti, perché voglio restituirle ai padroni antichi, che mi hanno servito”. Dichiara ancora che lo perdona per ogni offesa arrecatagli a condizione che si dedichi ad una vita di fedeltà e di pace nei suoi confronti, in ricordo della benevolenza ricevuta, e questo ovviamente trasferito anche a tutti i parenti e   prigionieri.
ANTONIO cadde in ginocchio e, dopo avergli baciato i piedi, lo ringraziò, e “ci tenne a dire” che aveva sempre desiderato di stare al servigio degli Aragonesi ma ne era sempre stato dissuaso da nemici del re, perché, avrebbero detto i cattivi consiglieri, il re aveva odio profondo e radicato per i discendenti di GIACOMO CALDORA che aveva servito per circa 14 anni gli Angioini.
 Per far seguire i fatti alle parole e dimostrare che quanto asseriva corrispondeva a verità, faceva portare una cassetta colma di lettere e scritture; ALFONSO non volle nemmeno vederle e dimostrando ancora la sua grande generosità ordinò di bruciare, in sua presenza, tutte le carte.
Tutto questo avveniva  nella notte tra il 28 e il 29 giugno del 1442 nel castello di Carpinone dopo la battaglia del 28 giugno.
ALFONSO V D’ARAGONA il 29 giugno se ne andava da Carpinone con il suo esercito diretto in Abruzzo ove tutte le popolazioni gli manifestavano grande simpatia e furono pronte a riceverlo; la notizia di aver sconfitto il potente CALDORA cominciava a dare i suoi frutti.
Il re vincitore, sembra fece edificare una cappella a Napoli in onore di San Pietro e Paolo proprio perché La battaglia fu combattuta e vinta alla vigilia della data dei festeggiamenti dei due Santi.
Paolo di Sangro per la sua defezione ebbe in cambio diversi feudi tra i quali S.Biase, Civitanova, Petrella, S.Angelo in grotte e  Ferrazzano.
Anche la famiglia baronale di Sessano, i Castagna, ebbero molte concessioni per aver prestato aiuto al re durante la battaglia. 
Quella sconfitta segnò la decadenza della casa CALDORA e la rovina di ANTONIO il quale dopo qualche anno di relativa tranquillità ebbe burrascose e disastrose vicende; costretto infine a rimanere confinato in Napoli, poco dopo fuggiva dal Regno.
Rifugiatosi a Hjesi, nella Marca, in casa di un soldato che aveva militato sotto il padre Giacomo, morì in gran povertà nell’anno 1465.