UN VALOROSO E UMILE CONDOTTIERO, UNA GLORIA IGNORATA NEL MOLISE:
GIACOMO CALDORA
a cura di Enio Monaco.
Il
castello di Carpinone prende il nome dalla famiglia Caldora, il
più famoso Casato che l’abitò, è pertanto d’obbligo fare menzione dei
suoi più illustri rappresentanti pur se brevemente, altrimenti ci
vorrebbero moltissime pagine per riportare tutte le loro vicissitudini ed il loro importantissimo ruolo nella storia del periodo della lotta fra gli Angioini e gli Aragonesi in cui furono grandi protagonisti.
Uno
di loro emerge come soldato coraggioso e di gran valore, una delle più
potenti figure del suo tempo: GIACOMO CALDORA (nato a Castel del Giudice
nell’anno 1368 e morto a Colle Sannita, vicino Benevento durante un
assedio nell’anno 1439), padre di ANTONIO
"Giacomo Caldora fu
di statura aitante, maestoso nella persona, dal volto attraente per la
confidenza che ispirava. Parlava con grandissima grazia, e con eloquenza
più che militare, perchè era più che mediocremente letterato"
Sull'insigne
uomo di guerra, incombe ancora un ingiusto oblio, essendo egli di gran
lunga maggiore di quanto non apparisca! Una gloria ignorata nel Molise.
Usava per arme uno scudo inquartato: il primo ed il quarto di oro, il secondo ed il terzo d'azzurro.
Sulla barda dei suoi cavalli, e sulle coperture dei carriaggi il motto:
"Coelum Coeli domino, Terram autem dedit filiis hominum"
"Il Cielo al Signore del Cielo, ma la terra fu data ai figli degli uomini" E' un detto davidico.
Intendeva dire in effetti che la terra è di chi può, in altri termini di chi più ne piglia.
Nella
sua vita errabonda ed affaticata, Giacomo Caldora, fra le innumerevoli
residenze di cui disponeva ne predilesse tre soltanto: Vasto e Pacentro nell'Abruzzo Chietino e Carpinone nel Molise, luogo di delizie estive.
Nelle sue varie vicissitudini, fu a Carpinone che il grande condottiero Giacomo Caldora, stabiliva la sua residenza abituale e concentrava quasi tutti i suoi tesori.
Abbiamo già detto che la stessa rocca fu prediletta anche da suo figlio Antonio che
colà si stabiliva ben volentieri, considerandola anche un punto di
controllo strategico perchè situata a metà strada fra i propri feudi di
Abruzzo e di Puglia.
Per Antonio, Carpinone nella sua particolare posizione rappresentava un baluardo di ultima speranza nella continua lotta contro Aragona e pertanto anch'egli continuava colà ad ammucchiare quasi tutti i suoi tesori.
Anche il padre di Giacomo si chiamava Antonio (Giovanni Antonio), messosi ben in evidenza con il fratello Raimondo quando Ambrogio Visconti, bastardo di Barnabò signore di Milano, osava invadere l'Abruzzo con il proposito di conquistare la Corona di Napoli.
I due fratelli, insieme con Giovanni Malatacca, un nativo di Reggio Emilia che chiamato da Luigi d'Angiò (secondo marito della regina Giovanna)
aveva il comando di tutti i mercenari stranieri che erano al servizio
della Corona, infissero una sanguinosa sconfitta all'invasore facendolo
anche prigioniero.
Furono propri i Baroni di casa Caldora, in quella vittoria, i primi ad essere ringraziati dalla Regina che rimase molto soddisfatta per lo scampato pericolo di quell'aggressione.
Tutto ciò accresceva la rinomanza sia nelle armi che nel numero dei feudi nella famiglia Caldora che proprio per questo, qualche anno dopo, Antonio chiese ed ottenne di imparentarsi con i Cantelmo, famiglia antichissima del patriziato scozzese, venuta a Napoli nel Reame con Carlo d'Angiò, sposandone la figlia Rita, una donna assai più giovane di lui la quale gli diede diversi figli, fra i quali tre maschi: Giacomo, Raimondo e Restaino.
Pertanto, Giacomo nasceva nell'autunno del 1368 in Castel del Giudice, comune molisano, che era uno dei meno recenti dei tanti feudi urbani, avuto per concessione di Roberto d'Angiò.
Jacopo Caldora fu uno dei più potenti condottieri del Regno di Napoli, allorquando morendo Giovanna II, lasciando erede Renato d'Angiò, fratello di Luigi III, la guerra riprendeva violenta tra Aragonesi ed Angioini.
In quel periodo Giacomo era già feudatario di Carpinone e combattè valorosamente contro Braccio di Montone, a l'Aquila, dando un contributo decisivo alla vittoria Angioina facendo prigioniero lo stesso Braccio.
Quella vittoria, a l'Aquila il 2 giugno del 1424,
fece salire molto la reputazione del condottiero al punto che molti
principi inviavano ingenti somme di danaro a costui per ingraziarselo e
fare in modo di non averlo schierato contro.
Giacomo Caldora, raggiunse, al pari di Sforza e di Braccio la dignità di Gran Contestabile del Regno, e cioè il primo posto dopo il Re nel comando delle milizie.
A Napoli la sua abitazione era situata colà dove oggi sorge la chiesa del Gesù Nuovo.
Jacopo Caldora, feudatario tra i più potenti nel tempo, forse pensò anche a crearsi un potere politico più vasto.
Egli
nacque patrizio come Braccio, ed ha lottato molto sin dalla prima
giovinezza cercando di emergere, dovendo combattere in un campo assai
vasto per superare le tante difficoltà dell’ascesa. Aveva la tempra di
Re, ma in un grande Stato, quale era il Reame, unito da tre secoli di
salda compagine politica, non si potevano correre avventure di uomini
squilibrati, e Giacomo aveva il cervello a posto.
Fu
il più colto del numero e a differenza di Sforza che era analfabeta,
egli sapeva a memoria quasi tutto Lucano, e si compiaceva citarne i
versi alla prima occasione.
Nella Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce si legge: "....quando
Sergianni Caracciolo s'imparentò con Jacopo Caldora, corse voce che
essi due insieme con il principe di Taranto, che aveva del sovrano
conforme alla particolare tradizione di questo feudo, intendessero
costituire un triunvirato, dando la città di Napoli al pontefice, e
spartendosi il Regno col carattere di vicari della Chiesa"
Dice ancora Croce: "Nella
prima metà del Quattrocento, si annoverava tra i molti feudi della
maggiore famiglia degli Abruzzi, i Caldora, Baroni e ad una condottieri,
e potenza quasi sovrana nelle lunghe e varie guerre di pretendenti ai
tempi di Giovanna II, di Luigi e Renato d'Angiò e di Alfonso d'Aragona: sommo
tra essi quel Jacopo, vincitore di Braccio di Montone, e valente astuto
e magnanimo, che insaziabile acquisitore di uomini, recava per motto: "
Coelum coeli Domino, terram dedit filiis hominum" e signore di più
ducati e contee, non volle mai per sè altro titolo che quello nudo e
orgoglioso di Jacopo Caldora".
Preferiva,
così, essere chiamato solamente Giacomo Caldora, titolo che metteva in
evidenza il suo valore personale e non altro titolo come principe o
duca, pur possedendo come feudatario gran parte dell'Abruzzo, del
Molise, della Capitanata e della terra di Bari.
Amava molto le lettere e predilegeva gli uomini ed i capitani di cultura.
Non abbandonò mai, nella bassa fortuna, re Renato d'Angiò, anche se veniva considerato alquanto instabile.
Quando
lo si rimproverava per quella sua apparente instabilità, considerato da
molti un difetto, si giustificava, portando come esempio
l'atteggiamento dei re, i quali non vedevano di buon occhio proprio
coloro che gli procuravano terre e ricchezze, in quanto non si sentivano
tranquilli e nè padroni del tutto di acquisti, fatti tramite quelli che
comunque gli procuravano gloria.
E
per questo motivo che Giacomo abbandonava i grandi che vivevano nella
prosperità, e si metteva al servizio di coloro che si trovavano nelle
avversità.
Gli storici, talvolta, sono eccessivamente parsimoniosi di particolari nella narrazione degli eventi,
sottraendo alla conoscenza dei posteri elementi episodici che ben
varrebbero ad integrare la consistenza morale delle personalità che ne
sono protagonisti, uno di queste è proprio Giacomo Caldora.
Se si consulta la bibliografia regnicola in rapporto all'incidente fra Caldora e il Principe Aragonese che voleva incendiare Napoli prima che il nemico la occupasse, si troverà il risoluto e magnanimo impedimento opposto dal Caldora: atto che da solo basterebbe a conferirgli l'ammirazione dei posteri.
Comunque la storia ed il valore di Jacopo
è stato particolarmente analizzato ed esaltato, con disinteressata
partecipazione critica, da studiosi di altre nazioni, primo fra tutti
dallo storico tedesco Gothein a cui si deve il giudizio più ampio e sereno.
Il condottiero,
protagonista di una storia senza memoria adeguata, prolifererà nella
sua terra di origine maestri d'armi e d'avventure che attendono una più
attenta ed amorosa letteratura.
Giacomo ha superato di gran lunga i più insigni capitani del suo tempo per fama di spirito cavalleresco e di magnanimità.
Col tempo diventò un grande e forte guerriero, e i condottieri della sua scuola si sparsero e si fecero onore per tutta l'Italia.
Voleva, dice di lui il Caracciolo,
che nessuno fosse suo re; per questo ora frenava la potenza dei suoi
avversari, affinché non si fortificassero troppo, ora moderava quella
del suo sovrano, perché non si innalzasse troppo: con quest'arte si
mantenne per tutta la vita indipendente e temuto da tutti.
Valoroso e presente a tutte le battaglie, con la sola sonora e profonda voce dominava ed ammaliava i soldati.
Giambattista Masciotta nel suo libro:
"Giacomo Caldora, nel suo tempo e nella posterità. Una gloria ignorata nel Molise," traccia
un accurata storia del grande condottiero sostenendo che a costui mancò
una tradizione che ne consegnasse ai posteri la doverosa memoria:
"Braccio, Sforza, Carmagnola hanno avuti onori di prose, di rime, di tele, di marmi: Caldora nulla.
Le
sue ceneri andarono disperse ed anzi bruciate le sue carte per ordine
generoso di d'Alfonso d'Aragona; e la posterità sa ben poco di lui e non
l'estima nel grado che il merito suo e la sua grandezza richiedono"