Riceviamo e pubblichiamo una ricerca storica di Enio Monaco riguardante la strenua resistenza dei Carpinonesi contro i Garibaldini, fatti di portata nazionale e di grande risalto per la loro spietatezza e lasciaronouna scia di sangue ed altro.
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Riporto
fedelmente quanto sono riuscito ad attingere dai documenti storici di
quel periodo scritti e commentati da noti cronisti al seguito come A.Mario-Cesare Abba-Tagliaferri-Iadopi
ed altri ancora, senza grossi commenti e ne giudizi sull’accaduto
limitandomi a dire che anche se la Storia ha condannato certi atti,
bisognerebbe in parte considerare che la massa popolare veniva allora
fomentata con menzogne e travisamenti verso i garibaldini, i quali non
sempre avevano comportamenti irreprensibili e venivano fatti apparire
come mostri agli occhi della gente del meridione; con questo non intendo
minimamente giustificare ne sminuire i gravi atti perpetrati contro le
camicie rosse di Garibaldi, atti che comunque sono da condannare per la
loro spietatezza, crudeltà e orrori, come sono da condannare tutte le vicende belliche che inevitabilmente scaturiscono verso un odio senza limiti.
Raccontiamo i fatti.
Nelle campagne di Carpinone, dopo la battaglia di Pettoranello in cui fu quasi massacrata la colonna Garibaldina comandata
del Colonnello NULLO inviato da GARIBALDI per spegnere gli ultimi
focolai di resistenza nelle colline e montagne della nostra zona, furono
trucidate a colpi di scure, di pietre e pali di legno, ventotto Camicie Rosse ed il loro sangue si allarga come una macchia incancellabile sui ricordi del passato.
Prima
di spiegare questo avvenimento è opportuno ed interessante raccontare
anche sommariamente la battaglia che il colonnello Nullo affrontò nella
zona di Pettoranello e che coinvolgeva strategicamente anche Carpinone, e i personaggi che ne furono protagonisti compresa la figura del loro comandante.
Il
colonnello FRANCESCO NULLO di Bergamo (il baiardo garibaldino) era
considerato un prode poiché sbarcato con Garibaldi tra i primi in
Sicilia, benchè ferito ad una gamba, non aveva ceduto la bandiera e fra
una grandine di pallottole non aveva cessato di gridare: “Viva Garibaldi”. Il comandante, tra l’altro, più tardi rivelava che nel tumulo di Isernia mutilarono orribilmente gli avversari presi.
Un cafone vantava lo squisito sapore del lombo di Don Peppino
cotto alla bracia ( come in effetti risultò nel corso del processo
all’Assise di Santa Maria Capua Vetere nel giugno-luglio 1864); rivolto
al suo vetturino il colonnello chiese che cosa significava il termine
cafone gli fu risposto: ”cafoni, Eccellenza, sono i contadini mentre i proprietari si chiamano galantuomini”.
Il capitano ZASIO chiedeva al capitano MARIO
(altri due combattenti mandati con Nullo) con riferimento ai contadini
isernini e della zona, tanto biasimati per le loro azioni crudeli :
”
E stimi tu, questi straccioni con sandali di pelle di capra, con feltro
a tronco di cono, messi sossopra per riavere il Borbone e la schiavitù,
discendenti legittimi di quei terribili e pomposi guerrieri, che
armavano talvolta ottantamila fanti e ottomila cavalli, e sfoggiavano
tuniche marziali di preziosi colori e scudi intarsiati d’oro e
d’argento, e tenerissimi della libertà, facevano sudar sangue ai Romani
intesi a domarli e, domi
e pesti e scaduti potevano aiutarli validamente contro Annibale, e
nella rassegna delle milizie dei soci in Roma figurare con
settantasettemila?”.
“ Io non dubito, rispose Mario, che in codesti cafoni circoli puro il sangue sannitico”.
Dopo
molti tentennamenti il Nullo, proveniente dalla parte di BOIANO con una
parte della colonna, dopo aver pernottato a Cantalupo, dove furono
allarmati da un latore che a Isernia stava per arrivare da Capua il
Generale SCOTTI con 4.000 uomini per dar man forte agli insorti e soldati borbonici, decise di fare perno su Pettoranello, poiché a suo parere da quel posto era possibile gettarsi sul nemico prima che arrivassero i rinforzi del suddetto comandante.
Nello
spiegamento strategico effettuato dai garibaldini, il capitano Alberto
Mario dispiegò un una mezza compagnia a catena, agli ordini del
comandante Campagnano, attraverso la gola che inerpicandosi dalla
pianura d’Isernia, fa da anello di congiunzione fra le falde di CARPINONE e Pettoranello.
Il Nullo fu accolto a Pettoranello in casa SANTORO
come gradito ospite. Inoltre una colonna fu fatta salire sul monte a
destra quasi di fronte a Pettoranello e due compagnie al comando del
capitano DE MARCO furono inviate verso Carpinone.
Il
Nullo, ancor prima di andare su Pettoranello, essendo stato informato
che numerosi reazionari erano dislocati a Carpinone dove si trovava
anche uno dei depositi delle armi e uno dei centri di arruolamento per
le truppe borboniche, dette incarico al capitano Zasio di fare un
sopralluogo in quel comune e tentare di impossessarsi delle armi che ivi
venivano trovate.
Infatti
lo Zasio lasciò Pettoranello con un battaglione di 200 militi, tra cui
una ventina di soldati ex papalini, e procedette per Carpinone.
I rischi erano molti, ma si procedette con cautela e lentezza, mentre
gli ex militari papalini, insieme a pochi altrii esploravano i lati
della strada.
Zasio
dislocava anche una compagnia dei suoi su di un colle di fronte ai
reazionari che si intravedevano sulle alture vicine.Un’altra compagnia
la piazzava di riserva su di colle poco lontano.
Il
piano strategico di Nullo prevedeva che la zona di Isernia doveva
essere stretta da due lati, in quanto i reparti schierati a Pettoranello
dovevano scendere a sud della città, passando per le frazioni della
Capruccia e Valle Soda e per contrada San Cosmo, mentre i reparti
piazzati sul monte dirimpetto a Pettoranello e nella zona di Carpinone
dovevano raggiungere la parte terminale nord di Isernia. Più p meno
queste azioni preliminari erano già finite intorno alle 16.
Alle
16,30 scattò la manovra borbonica da Isernia e lo Zasio ne fu
spettatore dalla collina su cui si era piazzato con i suoi. Egli vide
contadini armati e colonne militari, che, uscendo da Isernia,
procedevano verso Pettoranello, senza sparare colpi di fucileria.
Lo schieramento di
marcia era stato predisposto a gran semicerchio in questo ordine: un
battaglione di gendarmi, preceduto da uno squadrone di cavalleria,
avanzava in posizione molto arretrata sulla strada consolare: ai lati
della strada, sui campi procedeva mezzo squadrone di cavalleria in
posizione di punta; alle ali, nelle colline circostanti, torme di
contadini in armi si piazzavano a catena, cominciando da Isernia, a mano
a mano che si guadagnava la pendice che separava Pettoranello dalla
pianura. Questi reparti di contadini, formanti le due ali estreme,
allargarono la zona di schieramento, secondo indicazioni tattiche
ricevute, spingendosi a sinistra fino ad occupare il monte sovrastante
Carpinone e a destra fino ad investire la pendice di Pettoranello. Il
capitano Monteleone aveva il comando delle truppe in marcia.
Era facile intuire che i borbonici si muovevano, secondo un piano tattico ben preciso, per
scardinare il fronte nemico ed imbottigliare i garibaldini a
Pettoranello fino a sbarrare l’unica strada trafficabile ad ogni
possibilità di ritirata.
Il Nullo, per infondere coraggio ai suoi ed entusiasmo tra i combattenti, volle dare inizio alla battaglia con
un fatto di segnalato valore. A questo scopo ordinò a Mario di
raccogliere le guide ed i soldati di ordinanza e scendere con essi alla
taverna. Quivi il maggiore CALDESI ed un certo Mingon si
aggiunsero al drappello che risultò formato da 18 uomini a cavallo, i
quali si lanciarono a galoppo sulla strada consolare per affrontare i
borbonici. E’ inutile dire che il fatto suscitò entusiasmo; il gruppo
dei Carpinonesi aggregati alle truppe garibaldine, testimoni del fatto,
plaudirono con le mani e con grida che echeggiando tra i monti furono
udite dai 18 che già si erano spinti lontani. Sembrò che l’azione fosse riuscita in pieno, perché il drappello a briglia sciolta caricò il nemico. All’improvviso però i garibaldini di Carpinone cominciarono ad urlare: “Indietro, indietro! I cafoni al monte!”. Gli
inseguitori li udirono, ma, ciò nonostante, inebriati da quel successo
iniziale, proseguirono l’irruzione, mentre vivissime ed inaspettate
scariche di fucileria borbonica cominciavano a colpire di fianco il
manipolo di cavalleria dalla pendice avanzata del colle di Pettoranello.
Il
Nullo aveva appena terminato un lauto pranzo in casa dei suoi ospiti
innaffIato da ottimo vino e allietato da numerosi brindisi e si era
seduto al pianoforte, allorquando rintronava nella sala l’eco delle
prime fucilate.
Strano
questo comandante che si abbandonava alla spensieratezza di un lieto
desinare in una famiglia borghese, mentre i suoi uomini, per lo più
inesperti, vanno incontro alla morte! Dai documenti e specialmente dalla
relazione di Alberto Mario risulta che egli, arroccato nel prestigio
delle tante vittorie garibaldine a cui aveva largamente contribuito con
il suo valore, credeva di essere venuto in queste terre a combattere
contro birilli umani. Ma bastarono quei pochi sinistri colpi a
strapparlo al castello delle sue illusioni e richiamarlo alla realtà,
poiché subito montò in sella lanciandosi al galoppo, con il seguito e con i soldati di scorta, verso la linea del fuoco.
Il Nullo, giunto sul luogo delle operazioni, non riusciva a rendersi conto come quella importante posizione fosse stata presa senza
lotta. “pertanto , racconta il Mario, si accese un combattimento
particolare tra noi cavalieri e i cafoni, che dietro agli alberi ci
bersagliavano diabolicamente a pochi passi. Al sottotenente Bettoni,
delle guide, una palla infranse una gamba e lo condussero alla nostra
piccola ambulanza all’osteria. Noi cacciando i cavalli su per l’erta
nell’oliveto con rivoltelle e con spade venimmo alle strette con i
cafoni. Intanto scesi in aiuto alquanto da Carpinone, e accorsi quelli
che io collocai nella gola, dopo un accanito contrasto ci riusci fatto
di ributtare gli insorti in piena rotta. Nullo mi ordinò di assumere il
comando dei sopraggiunti, d’inseguire i cafoni, di regolarmi secondo le
circostanze, e di tornare a raguagliarlo. Egli e il maggiore Caldesi e
le guide voltarono il cavallo verso Pettorano”.
Il Mario afferma che
il Nullo “ temendo di perdere Pettorano, divisò di fare il cammino sino
alla borgata”. Ma sembra una pezza a colore. Sta di fatto che
l’improvvisa galoppata verso Pettoranello pesò negativamente sulla fama
del Nullo. “Alle prime schioppettate fuggì” dice il De Sivo.
Uno scrittore
che si cela sotto il pseudonimo di Marulli , polemizzando col Iadopi
ebbe a dire”…non appena i borboniani si accorsero dei garibaldini, loro a
a passo accelerato van contro, li circondano, li assalgono, li vincono.
Nulli e pochi suoi fidati fuggono”.
Il Nullo fuggendo si dimostrò inferiore a se stesso. Anche gli eroi hanno momenti di debolezza!
Il Mario Aggiunge: ”Messi insieme un centocinquanta soldati, li guidai contro i fuggenti. L’avanguardia regia respinta dalla
nostra carica a cavallo, il successivo ritirarsi dei cafoni e lo
affacciarsi del mio corpo persecutore gettarono qualche scompiglio nella
colonna nemica, la quale ripiegava sovra Isernia. Tentò essa due volte
di fronteggiarmi, ma raccolti i miei in massa l’assaltai alla baionetta,
e pervenni a gettare una parte sulla sinistra ed impedire il suo
ricongiungimento col rimanente che per la consolare si rifugiò in
Isernia”.
In effetti il
Mario continuò l’inseguimento fino al ponte dell’Acqua cioè fino alle
porte di Isernia, nella convinzione che anche altri reparti avessero
imitato le sue mosse. Invece giunto a Isernia si accorse di esser solo.
La scarsa resistenza opposta dai reazionari fu ritenuta, a prima vista,
un successo del travolgente impeto dei garibaldini fino al punto che il
Mario ebbe anche l’idea di entrare con i suoi uomini alla
rinfusa nella città, ma era un grande rischio. Rimase un poco perplesso e
poi si impadroniva delle collinette che limitano la pianura e
sovrastano Isernia ove si collocava. Poi siccome era notte e non
arrivava nessun ordine dal suo comandante se ne ritornò al quartiere
generale di Pettoranello per riferire sul risultato delle sue
operazioni, per apprendere i particolari della “vittoria su tutta la
linea” e per ricevere nuove istruzioni. Quale delusione! Il ripiegamento
dei borbonici non era un successo dell’impeto dei garibaldini ma era
una manovra tattica, per trascinare le forze del nemico, come
dimostreranno i fatti.
Contemporaneamente
all’avanzata dei borbonici a raggiera, come si è descritto prima, se ne
sviluppa un’altra formata da un corpo di gendarmi ed un altro di
volontari che uscendo da Isernia sud attraverso le vie mulattiere di San
Cosmo e quindi Valle Soda vanno a Pettoranello, e lo investono
sostenuti in simultanea da una manovra a cerchio degli altri borbonici.
I difensori di Pettoranello, presi tra
due fuochi, senza il comando del Nullo, non ingaggiarono nemmeno
battaglia ma pensarono di darsi a precipitosa fuga, nel tentativo di
raggiungere le altre truppe garibaldine che operavano sulla strada
consolare. Ma tremila contadini armati, sbucati dai versanti dei monti
ne precludevano l’operazione.
La colonna per
tentare di tenere una difesa e salvarsi almeno in parte, cercò di
arrampicarsi per le scoscese balze, mentre i borbonici, conquistata
Pettoranello, saccheggiarono e dettero alle fiamme il palazzo Santoro
che aveva ospitato il colonnello Nullo. In quel momento Nullo arrivava
alla Taverna ma non gli fu possibile risalire al paese e nemmeno
riprendere il comando delle truppe. Egli se ne rese subito conto perché
fu accolto da una micidiale sparatoria che partiva da un gruppo di
gendarmi e contadini appostati alle finestre della taverna e sparsi
tutti lì intorno. Vanamente tentò di aprirsi un varco con i suoi della
retroguardia tentando continue irruzioni nello schieramento nemico.
L’unica
possibilità che rimase alla retroguardia fu quella di rifugiarsi sui
monti vicini con la speranza di ricevere man forte dai garibaldini scampati a Carpinone, ma fu una vana speranza.
Fu triste per il
Nullo vedersi abbandonato. Con lui rimanevano soltanto il maggiore
Caldesi, sette guide e qualche milite della retroguardia.
Questo piccolo
gruppo comunque, posto di fronte ad una realtà che diventava sempre più
seria, seppe ritrovare il coraggio della disperazione, in quanto,
spronando con violenza i cavalli, a forza di minacciose grida, di colpi
di sciabola e rivoltella, riuscì a penetrare tra le file nemiche e
passare oltre.
Poté
in questo modo prendere la via di Cantalupo, l’unica possibile. Ormai
non poteva ricongiungersi con le truppe garibaldine dell’ala carpinonese
formata dalle due compagnie comandate da De Marco e dai 200 militi del
capitano Emilio Zasio. Basti pensare che il De Marco con i suoi non
potette nemmeno entrare in Carpinone perché sbaragliato dai borbonici.
Le truppe
borboniche in quella zona furono appoggiati da molti contadini
maggiormente di Castelpetroso e Carpinone e stabilirono l’epicentro di
un’azione che non dette nessuno scampo alla ritirata garibaldina e fu
una carneficina senza pietà.
Ed è opportuno ancora rifarsi al memoriale del comandante Alberto Mario: ”La
terribile situazione non era la morte, giudicata inevitabile, sibbene
il modo della morte. Quegli spietati non accordavano quartiere, e i
caduti nelle loro mani, o feriti, o sani, lentamente uccidevano”.
Dopo la battaglia
carneficina di Pettoranello, i garibaldini, scampati a quel sanguinoso
evento, si trovarono sbandati un poco dappertutto e proprio a Carpinone
incapparono nei nostri contadini reazionari che li massacrarono mentre
prigionieri venivano portati nelle carceri di Isernia. (Processo di
C.basso del 20.11.1863. 116 bis/1)
Per questi inauditi ed atroci fatti vi sono le descrizioni nei Processi celebratisi successivamente.
Nel luogo detto “sopra li colli”
due garibaldini, trascinati prigionieri, furono massacrati con colpi di
pietre e di fucile da una massa di contadini indigeni inferociti; I
loro corpi(quello che ne rimaneva) negli anni ’50, sono stati rinvenuti
sulla salita colle (dove adesso è l’edificio scolastico ed era il
Municipio) mentre la ditta di Imprese Costruzioni di Emilio Monaco procedeva allo scavo in quella zona per edificare il fabbricato adibito alle scuole.
Altri
cinque garibaldini, tenuti prigionieri dagli abitanti di Carpinone,
riescono a fuggire ma vengono raggiunti e uccisi barbaramente. Anche i
loro corpi, qualche anno prima del secondo conflitto mondiale, vengono ritrovati nei pressi del ponticello della cunetta sulla ex S.S. 85, nella curva in prossimità del Cimitero.
Ancora
altri 14 furono massacrati dai contadini Carpinonesi mentre venivano
portati nel carcere di Isernia, sotto la scorta della guardia urbana
D’Uva, nonostante l’intervento di un gendarme borbonico che comunque
riuscì a salvare la vita ad alcuni che erano in quel gruppo. ( Processo verbale dell’interrogatorio di Gennaro de Jeronimis davanti al giudice istruttore del distretto di Isernia. Carpinone 07.12.1860 A.S. Caserta Proc; prot. n° 13/6 II°)
L’arciprete Scioli fu testimone oculare dell’eccidio di questi quattordici garibaldini in Largo della Croce o Corpo della Croce(piazza Mercato) in Carpinone. La deposizione del sacerdote è registrata testualmente:
“Verso
l’alba del dì 18 dello scorso ottobre, da persone venute in mia casa,
che non ricordo, mi fu riferito che taluni garibaldini presi nelle
vicine montagne, fuggitivi pel fatto d’arme avvenuto nella sera innanzi
in Pettorano, erano stati qui uccisi, senza indicarne gli autori.
Alle
ore 16 del mattino istesso intesi, che da Castel petroso si conducevano
arrestati altri garibaldini, e dubitando che avessero potuto affrontare
lo stesso destino, fui sollecito a vestirmi ed ad uscire di casa; e
giunto al “Largo della Croce” per la calca del popolo e per lo
impedimento che dalla stessa mi veniva non potei passare
oltre, quando vidi che quelli infelici arrestati, al numero di sedici in
diciassette venivano barbaramente a colpi di scure, pali e pietre
sacrificati, e nel tempo istesso intesi varie esplosioni di arma da
fuoco. Allora mi sforzai di vincere ogni resistenza, e salito sul
gradino ov’è fissa “la Croce”, raccomandavo l’anima a quei moribondi,
lungi da me circa 40 passi.
Dopo
sgombrata la folla, mi avvicinai, e vidi il suddetto numero di
cadaveri, e scorsi un infelice fra quelli, che ancora respirava, e vidi
Leonardo Foglia di Saverio, gli diede un forte calcio sotto il mento,
perché stava supino a terra, ed aprendo la bocca esalò l’ultimo respiro.
Il detto Foglia
giunse in quel luogo di sangue alla mia presenza, dopo dello scempio di
tanti infelici, e quando solamente l'indicato individuo era morente".
Dalla sentenza del Tribunale di Napoli Corte di Appello : “Orrendo
a dirsi sarebbe il modo con che quegli sventurati venivano trucidati;
il piombo, le scure, le mazze, i sassi, e i calci erano avvicendati
nell’opera nefanda. In fine si chiudeva quella sanguinosa giornata col
sacrificarsi di altre sette vittime, e cosi lo scempio di ventotto
difensori della patria rimaneva non estinta la fame di quei Cannibali
Carpinonesi, ma le vittime mancarono”.
“ Nel luogo detto Neviera
“fosso della Calcara” i cadaveri di 19 garibaldini trucidati dai
reazionari restano sepolti da uno strato di terreno argilloso”.(Dal
rapporto del medico Giambattista Valente al giudice istruttore del
distretto di Isernia allegato al processo a carico di Leonardo Bertone
ed altri. Carpinone 11/12/1860 A.S. Caserta Proc. Pol. N° 13/06 II.
“
Verso sera, i contadini di Carpinone assalgono e massacrano i
garibaldini fatti prigionieri dai reazionari di Macchiagodena ed
infieriscono con inaudita ferocia sui moribondi” (Dal Processo Verbale dell’interrogatorio di Giovanni di Maggio davanti al giudice regio del mandamento di Carpinone)
E dulcis in fundo, durante l’assalto ed incendio del palazzo Iadopi
in Isernia optato dalla plebaglia di contadini della zona contro le
ultime resistenze garibaldine così viene descritto l’avvenimento:
“Formicolava
la plebaglia nel saccheggio: le scale piene di gente rapinatrice che
saliva, che scendeva, chi per trasportare il già preso, chi per afferrar
altro. Alcuni contrastavano il rubato ai rapinatori; altri per non
compromettere il bottino e per far più presto nel rubare cacciavano
mobili, arnesi, stoviglie dal balcone. In tale strepito ed
avvicendarsi del saccheggio venne appiccato il fuoco in più lati del
maestoso edificio….Tra fumo nerissimo e crepitante si inoltravano le
voragini di fuoco per le sale, per gli androni, per la magnifica
scalinata. Rotolanti per le volte fino a che bruciate le travature con
terribile fracasso rovinavano travi, volte, pavimenti e tetti da
rimanere solamente mura coperte di fuoco, di fumo, di fiamme…..
L’orrendo spettacolo non destava alcuna pietà nella inumana orda gavazzante della rovina.
E quando i pochi ruderi esterni che
avanzavano dalla interna rovina del palazzo parea che volessero
diroccarsi, perché mancanti di catasto e d’appoggio, ebbra d’inconsueta
ferocia, come a più tremende espansioni della stessa, gridava “Viva
Francesco II”, lanciando teschi umani recisi che erano rotolati per la strada dai carpinonesi Antonio Fabrizio, Michele “La Vacca”, e molti di Pesche.
I
cittadini che portarono allo spettacolo dell’assalto la nota macabra
dei teschi furon cinque cioè: i sunnominati Fabrizio e Martella, da Carpinone, e altri tre di Pesche e Sessano. I teschi recisi da
sette cadaveri di garibaldini furono portati a Isernia issati su due
pali. Quando finì il macabro gioco di rotolarli sulla strada,(attuale
piazza Carducci) furono appesi come trofeo ai balconi di palazzo Iadopi”
A Carpinone il fermento popolare aveva avuto inizio
verso la mezzanotte del 30 settembre del 1860, allorquando giungeva da
Isernia la notizia dell’imminente arrivo di un distaccamento della
cavalleria regia. Il popolo inneggia subito a Francesco II portando in
giro, in processione, le effigi dei Borboni.
Gaetano
Fazio (nostro concittadino) caposezione della Guardia Nazionale, per
non farsi coinvolgere, tenta di evitare, durante il suo turno, che venga
assalito il posto di guardia.
Il reazionario Giovanni Tamasi ed altri contadini riescono comunque a neutralizzare l’avamposto
delle guardie. L’opinione pubblica, indicherà invece come promotore di
questi atti, Gaetano Fazio che sembrava complottare continuamente
con il Tamasi ed aveva di proposito abbandonato il posto di guardia
prima dell’assalto, lasciandolo sguarnito. ( Di questo se ne fa menzione
nel Processo verbale dell’interrogatorio di certo Domenico Ciccone
davanti al giudice del Mandamento di Carpinone il 26.09.1861. A.S. Processi Politici .
Pertanto, disarmato il posto di guardia, gli insorti carpinonesi si rendono fautori di “orge tali da spaventare ogni onesto cittadino” mentre i capi reazionari sono festosamente accolti in casa Fazio.
Il Canonico Luigi Venditti, il sindaco Giuseppe Malerba ed il giudice Achille Simonetti invano tentarono di sedare la rivolta.
I rivoltosi improvvisano una cerimonia erigendo un altare per venerare le effigie di Francesco II, mentre mastro Pietro Venditti aizza la plebe , tenendo fra le mani le interiora sanguinanti di un animale, profferendo ad alta voce : “A canne (misura locale per la legna) si debbono vendere, come queste, ( e mostrava le interiora) le budella dei liberali”
(dalla Requisitoria del Procuratore Generale del Re presso la Corte di
Assise di Campobasso nel processo a carico di Domenico Venditti ed
altri. Campobasso 20.11.1863 A.S. C.basso n° 116 bis/1.)
Quasi
tutti i liberali del paese tentano di salvarsi dandosi alla fuga. Il
notaio De Simone, dopo essersi nascosto prima in casa propria e poi in
quella dell’arciprete, scappa e si rifugia a Pesche dove il 3 ottobre
viene arrestato e portato ad Isernia e poi liberato i giorno dopo dai
volontari del Governatore De Luca.
Gli
insorti prelevavano da casa l’arciprete Scioli e gli imponevano di
cantare il Te Deum in chiesa in onore di Francesco II. Presenti alla
cerimonia tutte le autorità del paese che sperano in questa maniera, di
evitare il peggio.
Ciò nonostante verso sera, da Isernia, arriva al comando dei reazionari l’ordine di arrestare 27 persone “tra preti e galantuomini”.
L’Arciprete
Scioli intercede presso Giovanni Tamasi, uno dei capi reazionari, per
tentare di evitare arbitrii e qust’ultimo lo rassicura con la sua “parola d’onore”.
Si procede ad eseguire gli ordini e i contadini rivol tosi arrestano numerosi “galantuomini”, tra
questi i signori Costanzo Petrunti, Saverio Di Blasio, Saverio
Antonucci, Domenico Ciccone; i giovani figli di Gennaro Ciccone;
Vincenzo, Fedele e Francesco De Jeronimis, Fiorangelo Tamasi ed altri.
Gli
arrestati furono condotti ad Isernia e via facendo dovettero sopportare
crudeli sevizie. Rinchiusi nelle carceri trovarono la salvezza
all’arrivo del suddetto Governatore De Luca.
In
Carpinone , nel frattempo, tutte le famiglie sospette venivano
disturbate continuamente dai rivoltosi con estorsioni, chiedendo danaro,
viveri ed altro, sotto la minaccia di mettere le case a ferro e fuoco.