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27 dicembre 2006

Mostra "Arte e Fede"

Organizzata dalla Associazione Socio-Culturale "Il Castello" e dalla Parrocchia "Santa Maria Assunta", si è tenuta, dal 16 al 24 dicembre, la mostra collettiva di arte sacra "Arte e Fede" nella splendida cornice della chiesa dell'Immacolata Concezione.
La mostra, coordinata da Donata Febbraro, ha visto la partecipazione di numerosi artisti locali che hanno esposto le loro opere attinenti al soggetto della mostra.
Hanno esposto: Vincenzo Amicone, Carmen Catapano, Massimiliano Colombo, Gianni Di Nezza, Nelida Di Stefano, Raffaella D'Uva, Donata Febbraro, Massimo Federici, Radio Imondi, Ugo Martino e Umberto Taccola.

26 dicembre 2006

O’ Marenariello

Piccolo racconto di Nicola Spallone
Il fenomeno che si sta verificando in questi ultimi anni in Italia e in molti  Paesi europei, cioè l’emigrazione autorizzata o clandestina, è lo stesso che  si verificò, dal1880 al 1960 circa dall’Italia verso i Paesi dell’America del nord e del sud.
I Paesi maggiormente interessati furono gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, il Brasile, essi riservarono, a molti dei nostri connazionali, un’accoglienza a dir poco indegna nei riguardi delle persone, basti pensare ai nostri emigranti che sbarcavano negli Stati Uniti e venivano sottoposti a indescrivibili umiliazioni. Una di queste era la “quarantena”: gli emigranti venivano tenuti segregati, per quaranta giorni nell’isolamento più totale su un’isola al largo del porto di New York (Ellis Island), una specie di lager, dove, uomini donne e bambini venivano sottoposti a visite mediche giornaliere, prima di lasciarli liberi di raggiungere parenti e amici o per cercarsi una casa e un lavoro, onde evitare che in mezzo a loro ci potesse essere qualche portatore di malattie epidemiche. La cosa più umiliante era la doccia giornaliera: gli emigranti venivano convogliati in uno spiazzo, invitati a togliersi i vestiti e con gli idranti, veniva somministrata loro la presunta pulizia personale. I nostri emigranti sopportavano tutto, e, una volta lasciati liberi, riuscivano a sistemarsi alla meglio, trovare un lavoro e una casa per la famiglia.
Siamo negli anni trenta del secolo scorso e, nella città di Filadelfia, avevano trovato sistemazione molti Italiani e fra questi molti Carpinonesi che occupavano addirittura un intero quartiere, nel quale erano ammirati e rispettati per la loro serietà, onestà e bontà.
Tra questi emigranti c’era un nostro compaesano, Vito. Egli era persona seria e onesta, ma anche buontempone, amico di tutti e con capacità organizzative impensate; nel quartiere degli Italiani da tutti ben visto, perché era amico di tutti.
Un giorno gli frullò nella testa un’idea, un’ottima idea: pensò di formare un  club, un circolo per gli Italiani e anche per gli Americani nella città di Filadelfia. L’idea fu accolta con grande entusiasmo da tutti i connazionali, anche perché il club poteva servire per riunirsi, per discutere dei loro problemi, per festeggiare ricorrenze importanti, ma, soprattutto per tenere unito il gruppo degli Italiani. Il nostro Vito, avuto il consenso alla sua proposta, si mise subito al lavoro per creare il club. Trovò un ampio locale e, con l’aiuto di altri connazionali, munì il locale di tutti i confort allora disponibili; un numero imponente di persone aderì, molti diventarono soci del club a cui fu dato il nome, che spiccava nell’insegna, di “Club degli Italiani”.
Arrivò il giorno dell’inaugurazione e per questo avvenimento così importante, l’organizzatore pensò bene di estendere l’invito anche agli Americani del luogo, i quali accettarono con grande entusiasmo. Il giorno dell’inaugurazione c’era un via vai di gente e gli americani non mancarono di far sentire la loro presenza, fu invitata una fanfara, che non manca mai nelle feste che si svolgono in America; ci fu un rinfresco e un pranzo all’italiana; dopo il pranzo iniziarono le danze e si ballò fino a notte inoltrata.
Alla fine della festa, gli Americani ebbero parole di lode e di ringraziamento per gli emigranti italiani, ma soprattutto per il nostro Vituccio. Al momento del commiato, gli Americani si alzarono in piedi, mano sul petto e sull’attenti, intonarono l’inno nazionale americano, in segno di ringraziamento per l’accoglienza ricevuta.
Finito di cantare l’inno, ci furono i rituali applausi da ambo le parti con lo sventolio di bandierine tricolori, quindi gli Americani invitarono i nostri connazionali a cantare l’inno nazionale italiano; ci fu un momento di panico collettivo, l’organizzatore aveva previsto tutto: la musica, il rinfresco, il pranzo, l’addobbo della sala, tutto nei minimi particolari, ma nessuno aveva pensato all’inno.
Al panico seguì lo smarrimento, ci furono momenti di tensione, come cantare l’inno nazionale italiano, se nessuno lo conosceva?
Tutti si guardarono, come potersi disbrigare in questa inattesa situazione? Ma, Vituccio, l’organizzatore della festa, non si perse d’animo, subito sfoderò dal suo cervello un’altra idea geniale che salvò i nostri connazionali da una figuraccia. Fece passare fra loro il seguente suggerimento: -“Amici, forza, cantiamo ‘O’ Marenariello’”, uno dei brani più conosciuti della canzone napoletana. Un coro compatto si levò dal gruppo dei nostri, perché la canzone era conosciuta da tutti e fu cantata per intero e con maestria; gli Americani tutti in piedi, mano al petto, ascoltarono in silenzio l’improvvisato “inno nazionale italiano”; alla fine ci furono applausi molto calorosi e lo sventolio di bandierine a stelle e strisce. Le congratulazioni fioccarono da parte degli amici d’America e la festa, con questa manifestazione d’amor proprio, si chiuse fra scroscianti applausi, tutti furono contenti anche perché gli Americani presero per buono l’inno nazionale.
Vituccio, col suo intuito e con la prontezza di riflessi di cui era dotato, salvò da una magra figuraccia i nostri emigranti e poi commentò: “O’ Marenariello”, questo bel brano della canzone napoletana, non ha avuto mai tanto onore, applausi e gloria, quanti ne ha ricevuti all’inaugurazione di un ritrovo collettivo di emigranti italiani nella città di Filadelfia.
In memoria di mio padre
Nicola Spallone